mar 232014
 

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In tempi di spending review il lavoro sanitario è certamente uno degli argomenti su cui si esercitano esperti di ogni caratura con soluzioni talvolta fantasiose. Tagli lineari di miliardi di euro sono annunciati in ogni dove mediatico incontrando resistenze e plausi spesso acritici o semplicemente esasperati dalle diverse esperienze di buona o cattiva prestazione sanitaria ricevuta nella vita di ognuno. In pochi, però, arrivano a capire l’organizzazione della diagnosi e cura che oggigiorno si trova ad affrontare le nuove esigenze dei cittadini che ricorrono ai servizi ospedalieri o di base. Compreso chi dovrebbe governare il sistema a livello regionale o di azienda sanitaria. Senza addentrarsi in analisi poco adatte a questa piccola nota, molti pensano il lavoro sanitario  come quello di una fabbrica nella quale i diversi lavoratori, nella diversità delle competenze, eseguono fondamentalmente tutti il medesimo compito e ogni unità lavorativa esegue da solo tutti i passi per fabbricare un oggetto. Con questa logica la produzione dell’oggetto sarà funzione del semplice numero di lavoratori il cui contributo sarà la divisione del numero di oggetti prodotti per il numero degli stessi lavoratori. Potremo quindi modulare il semplice numero dei lavoratori per ottenere maggiore o minore produzione o fare in modo che ogni lavoratore produca più velocemente l’oggetto in questione riducendo il tempo di fabbricazione. Ma il sistema delle cure appartiene ad un altro tipo di “fabbrica”. In questo diverso laboratorio ogni singola persona svolge un compito differente, una parte del lavoro finale e per fabbricare anche un unico oggetto i lavoratori devono per forza cooperare. Questa divisione del lavoro è già economicamente più efficiente in quanto la specializzazione permette a ciascuna unità lavorativa di diventare molto esperto in un determinato compito e di portare al massimo, appunto, l’efficienza lavorativa. In questo caso, però, cambiando il numero dei lavoratori – in più o in meno – non si assiste ad una modificazione del prodotto finale in percentuale al numero delle persone che vengono aggiunte o tolte. Paradossalmente, aggiungere o diminuire il personale potrebbe portare allo stesso risultato finale non prevedibile: aggiungere nuove figure lavorative potrebbe portare sia ad un miglioramento che ad un peggioramento se si interferisse con il flusso di lavoro. Questo è quello che succede nell’organizzazione sanitaria: la correttezza – ed anche il numero – delle prestazioni dipende più dall’organizzazione e dalla sapiente miscela dele conoscenze tra le diverse parti più che dal loro numero. Se inoltre inserirete in tutto questo le parole merito, preparazione, capacità di collaborazione, inventiva, capacità di innovazione, ricerca, è possibile che abbiate le chiavi per costruire non solo una nuova organizzazione sanitaria più efficace e con costi minori, ma un Paese diverso all’altezza di sfide più complicate.

ott 112012
 

Zingales e Boldrin hanno fondamentalmente ragione quando invocano uno stop fermo ai sussidi di Stato per le imprese e la riduzione delle imposte. Perche? Se io finanzio imprese non competitive, in realtà aiuto chi sa fare bene il proprio lavoro e chi no (e sembrerebbero in gran numero!). Non solo, perchè gli aiuti li distribuisco non a chi è “sano”, ma a chi non è più competitivo e tramite il finanziamento, non sarà costretto ad innovarsi e cambiare radicalmente. Senza contare che tali aiuti arrivano direttamente da chi sta facendo bene impresa. Tirando al linea, chi sta producendo bene e accetta rischio e capacità d’innovazione sarà costretto a finanziare in maniera gratuita chi sta sbagliando, perdendo quindi risorse che potrebbero essere reinvestite in ulteriore ricerca e sviluppo di aziende che generano lavoro. Ridurre invece la tassazione non permette, detto in maniera grezza, che si verfichi questo passaggio di risorse, ma lascia alla capacità delle aziende lo sviluppo e la produzione di beni che i consumatori vogliono consumare. Resta in ogni modo il rebus dei lavoratori. Ma anche qui bisogna grattare la superficie. Se un’azienda non funziona, non si può sperare di sovvenzionarla in perdita per tutta la vita: le risorse impiegate provocano un impoverimento della collettività che poi si tradurrà, come sta accadendo oggi, nel taglio dei servizi. Senza contare che in realtà sono i lavoratori stessi che si pagano gran parte della loro stessa disoccupazione (cassa integrazione). Una minore imposizione fiscale potrebbe, sempre ragionando in maniera grezza, portare a un’accelerazione della crescita e forse, anche nel breve termine, a un risparmio di risorse (tenendo anche conto che chi produce e vende di più, guadagna di più e versa più contributi totali). L’ultimo vero pezzo di riforma starebbe, infine, nel tutelare non il posto di lavoro, ma il lavoratore stesso, con debite correzioni che ne stimolino comunque la rioccupazione anche mediante la riqualificazione. Un esempio è il calcolo che qualcuno ha fatto per i lavoratori del Sulcis: allo Stato sarebbe costato meno sostenere i singoli lavoratori che continuare a foraggiare aziende che poi non hanno assistito veramente i lavoratori e stanno per chiudere. Il concetto finale è che anche ragionamenti di questo tipo possono avere delle falle, ma il perpetuarsi dei vecchi modelli non ci porta da nessuna parte ed è necessario trovare, con juicio, altre strade liberandosi da ideologismi che non appartengono nemmeno più ai lavoratori.

mar 032012
 

Il dibattito sulla riforma del lavoro è stato a lungo caratterizzato da una netta biforcazione tra la sostanza politica della discussione e la realtà economica del tema in questione. Facciamo il punto con Pietro Ichino sulle determinanti economiche e normative alla base dei fenomeni che osserviamo all’interno del sistema-lavoro.

Il ‘modello danese’ è applicabile ma va prima ridefinito cos’è il lavoro dipendente, per non lasciare nessuno fuori dal diritto del lavoro; e ridisegnato l’intero sistema degli ammortizzatori sociali, implementando un sostegno al reddito efficace e mirato alla ricollocazione di chi ha perso il posto.

Leggi l’intervista a Pietro Ichino sul sito di Italia Futura