mar 252018
 
fornariguerra

“L’esperienza clinica insegna che quando una realtà distruttiva viene coperta da simboli d’amore esiste la possibilità che ciò costituisca una operazione destinata a coprire profonde angosce depressive o persecutive e che tale occultamento abbia in sé grande probabilità di predisporre colui che lo fa a distorsioni gravi nell’esame di realtà e quindi a non trovarsi nelle condizioni di poter prevedere correttamente le conseguenze possibili dei suoi atti.”

Franco Fornari, Psicoanalisi della guerra

feb 092018
 

reich

In tempi di rigurgito fascista, uno sguardo a Reich e al suo “Psicologia di massa del fascismo” è ancora una delle migliori letture per comprendere cosa stia accadendo oggi.

 

” Il fascismo, nella sua forma più pura, è la somma di tutte le reazioni irrazionali del carattere umano medio. Il sociologo ottuso, a cui manca il coraggio di riconoscere il ruolo predominante della irrazionalità nella storia dell’umanità, considera la teoria fascista della razza soltanto un interesse imperialistico, per dirla con parole più blande, un “pregiudizio”. Lo stesso dicasi per il politico irresponsabile e retorico. L’intensità e la vasta diffusione di questi “pregiudizi razziali” sono la prova che essi affondano le loro radici nella parte irrazionale del carattere umano. La teoria della razza non è una creazione del fascismo. Al contrario: il fascismo è una creazione dell’odio razziale e la sua espressione politicamente organizzata. Di conseguenza esiste un fascismo tedesco, italiano, spagnolo, anglosassone… L’ideologia razziale è una tipica espressione caratteriale biopatica dell’uomo orgasticamente impotente”

feb 082018
 

argentieri

(…) Dunque lo psicoanalista è al tempo stesso medico e medicina. La formazione (il cosiddetto training) lunga e rigorosa, articolata fra teoria e clinica, è basata proprio sulla peciliarità che ciascuno di noi, prima di diventare terapeuta, deve fare il paziente. Cioé si fa curare, imparando il mestiere sul suo proprio inconscio. L’analisi personale ha lo scopo di vagliare il progetto del candidato, di confrontarlo con le sue parti malate e sofferenti (che in variabile misura ci sono sempre in coloro che decidono d’intraprendere tale atipica professione), anziché avallare il “cortocircuito” di porsi aprioristicamente dalla parte di chi cura. La qualità minimale, ma essenziale dell’analista è la capacità di sopportare l’angoscia: la propria, come premessa indispensabile per poi reggere quella degli altri. Ciò comporta la rinuncia – per quanto è umanamente possibile – alle difese (rimozione, diniego, scissione, proiezione…) che ostacolano la circolazione inter e intrapsichica di pensieri ed affetti; e particolarmente la rinuncia a quelle che potremmo chiamare “difese professionali”, al servizio delle quali possono andare i livelli più evoluti del pensiero: l’autoreferenzialità delle argomentazioni, l’autogiustificazione del proprio operare, il proiettare nell’altro le proprie parti malate per poi soccorrerle.

Fin dall’epoca di Freud, d’altronde, amiamo dire che nel nostro mestiere etica e tecnica coincidono, come sforzo verso il riconoscimento dell’alterità: riconoscere l’altro nella sua diversità senza odiarlo. Ciò serve a metterci in guardia dalla tentazione di prendere il posto dell’”ideale dell’Io” dei pazienti; dal cercare  in essi sotterranee gratificazioni narcisistiche; nonché dalla pretesa onnipotente di poter guarire tutti, senza al consapevolezza dei limiti dei nostri strumenti e della nostra persona.

Non dobbiamo illuderci che sia sufficiente una cultura fatta solo sui libri per potersi cimentare nella dimensione clinica della cura dei pazienti. Ad esempio una “consulenza filosofica” (oggi molto in auge) aiuta a pensare, stimola allo studio; ma non sarebbe inutile se non addirittura nociva nel caso di una nevrosi, perché fa perdere tempo e collude con la resistenza tanto comune ad ammettere di essere psicologicamente malati. (…)

Simona Argentieri in: Argentieri, Bolognini, Di Ciaccia, Zoja; “In difesa della psiconalisi”; Einaudi, 2013

ago 152017
 

Un’idea della psicoanalisi è quella che non esista il determinismo. La vulgata più comune attribuisce invece a Freud il marchio che si diventa come si è perchè i propri genitori – o qualunque cosa sia avvenuta in tenerissima età  e dopo – ci abbiano forgiato così come siamo ora. In realtà la domanda che la psicoanalisi ci rivolge è semplice: cosa ne hai fatto di ciò che hai subito? Perchè se si prende il soggetto solo come vittima rimarrà inchiodato in questa posizione per tutta la vita.

ago 132017
 

hurricane

In tempi di suprematismo bianco – altro nome nemmeno malcelato di razzismo – trovare qualche antitossina utile che almeno ci faccia avvicinare ai termini del problema non è davvero facile. Farlo poi in maniera poco noisa sembra un’avventura. Eppure, se si vuole godere di una buona storia molto ben scritta che elimina moralismi vari e chiacchiere alla moda politica, un consiglio può essere quello di accostarsi al testo di James S. Hirsch “Hurricane, il miracoloso viaggio di Rubin Carter” (ed. 66 TH A2ND) recentissimamente riproposto in libreria. Lasciate perdere Bob Dylan, che pure è importante nella storia di Rubin Carter, il pugile protagonista di questa storia vera nell’america degli anni ’60, e fate  scorrere senza pensarci troppo, questa scrittura puntuale e avvincente che non indugia nell’agiografia e mette nel giusto ordine gli istinti di accusato, accusatori e di chi – anche Dylan, perchè no – hanno guadagnato in un modo o nell’altro qualcosa da questa storia. Con l’avvertenza che questa è finita, diciamo così, bene, ma che il mondo non va sempre in questa direzione

ago 082017
 

US SWISS BANKS NAZIS

   Molta letteratura psicoanalitica mostra le proprie Colonne d’Ercole, al di là delle quali non è possibile andare, in quadri psicopatologici diversi arrivando al limite della possibilità di poter dare un aiuto significativo a patologie come la schizofrenia (per quanto valga oggi tale inquadramento). L’idea sottostante è spesso ancora quella che esista un continuum tra quadri cosiddetti “nevrotici” più affrontabili e con maggiori risorse disponibili per la “guarigione” (e qui non ci addentreremo su cosa ciò significhi in analisi) passando poi per gli stati “borderline” e quindi le psicosi, con minori chance di trattamento. Eppure per diverse ragioni facilmente comprensibili, si sta aprendo la strada una riflessione sui limiti e sull’opportunità dell’esperienza analitica in persone ormai anziane e che in passato non erano considerate idonee al trattamento analitico. L’idea non è certamente una novità, soprattutto ricordando come in campo medico gli operatori si trovino sempre più di fronte a pazienti anche molto anziani che vengono non solo assistiti, ma a cui vengono in numero sempre crescente proposte terapie anche impegnative. Nella storia della psicoanalisi si è assistito sempre più ad un ampliamento delle fasce d’età che possono avere giovamento dalla talking cure, ricordando sempre come fossero considerati limiti invalicabili l’età pediatrica da un lato e la maturità dall’altro. Se la comparsa di clinici come Melanie Klein hanno rappresentato un vero e proprio cambio di paradigma per l’età infantile, forse il tempo è maturo per una riflessione molto approfondita e sistematica sull’età “estrema” a cui la psicoanalisi può rivolgere i propri benefici. Tra i tanti, mi piace riportare una riflessione di Franco De Masi nel suo “psicopatologia e psicoanalisi clinica” dove lamenta da un lato come la letteratura psicoanalitica trascuri abbastanza la sofferenza connessa all’invecchiamento , mentre dall’altro segnala come ” i pochi casi trattati analiticamente presenti nella letteratura hanno risultati sorprendentemente buoni e, pertanto, sarebbe molti utile se gli analisti fossero più consapevoli della richiesta d’aiuto da parte delle persone anziane che mancano di “oggetti” capaci di accogliere la loro angoscia e trasformarla”.

ago 062017
 

paranoia

Chi è il paranoico e perchè può oggi interessarci in maniera così stringente? Può la paranoia essere adoperata come uno strumento – non il solo certamente – attraverso cui capire meglio il nostro tempo? Luigi Zoja ci pone, in questo suo testo dalla leggibile complessità, di fronte a questa logica  nascosta che procede scambiando cause con effetti intravvedendo la possibilità di fuoriuscita dalla patologia individuale a quella della “massa”. E questo “stile sragionante” dove si spinge il proprio male all’esterno, inventando ostacoli ed ostilità e attribuendo sempre a qualcosa di “esterno”, “Altro da sè” tutti i guai passati, presenti e futuri, sembra davvero essere una delle cifre con cui guardiamo oggi il mondo. Con l’importante notazione di come esistano infinite gradazioni dalla normalità a ciò che definiamo come pazzia. Per capirci meglio basta riandare al caso della “caffettiera della nonna”. Un’ anziana signora era assistita da una giovane ragazza che viveva con lei. Un giorno la ragazza vide una caffettiera nella vetrinetta e disse: ” Che bella caffettiera!” La nonna cominciò a sospettare: quella caffettiera le piace troppo, potrebbe rubarla. Così la nascose. Dopo qualche giorno alla nonna venne voglia di caffè. e, abitudinaria come tutti gli anziani, cercò la caffettiera nella vetrinetta. E non la trovò, dimenticandosi che l’aveva nascosta. “La caffettiera non c’è più, dunque è stata rubata dalla ragazza” ricavando una conferma dalle premesse che lei stessa aveva creato.

ago 062017
 

 je

 Costanza Jesurum ha scritto un bel libro su “cosa accade a chi fa psicoterapia oggi”. Un argomento certamente molto difficile da digerire, soprattutto in tempi dove tutto è breve: terapia breve, velocità nella cura, immediata risoluzione dei problemi di qualsiasi natura, farmaci che agiscono nello spazio di un caffè (ma non si sa fino a quando…) e via di questo passo. Senza essere un vademecum in cui trovare allineate in ordine alfabetico le risposte alle domande che un po’ tutti si pongono quando si avvicinano al mondo della psicoterapia (che cos’è rispetto alla medicina? Perchè ci sono tante scuole? Perchè bisogna pagare le sedute che si saltano? Quali rischi si corrono nell’affidarsi a chi promette di guarire la nostra psiche?), il testo rappresenta un filo di Arianna che percorre le infinite e diverse sfaccettature di un incontro tra due menti permettendoci di non perdere mai la direzione o di saltare su altri mondi che poco hanno a che fare con l’argomento. Per arrivare a sentire che ogni psicoterapia è un campo affettivo dove si arriva credendo che una coosa sembri ma non sia, per scoprire che è diversa da quel che si credeva…

lug 302017
 

de-masi

 

Franco De Masi non ha bisogno di molte presentazioni per chi pratica l’area della psicoanalisi. Già Presidente del Centro Milanese di Psicoanalisi, membro della Società Italiana di Psicoanalisi, ha al suo attivo molte pubblicazioni con una particolare attenzione per la comprensione psicoanalitica e la terapia dei pazienti più gravi. Leggere, però, il suo “Psicopatologia e Psicoanalisi Clinica” – ed. Mimesis, 2016 (pag. 216), ci riporta non solo ai fondamentali della materia, ma a tutto ciò che nella storia della disciplina si è mantenuto integro e vitale tenendo conto degli autori che hanno ampliato e contribuito all’evoluzione delle tecniche e delle teorie analitiche. Lontano dall’idea che esista una singola teoria psicoanalitica ortodossa, De Masi passa in rassegna i concetti del lavoro analitico senza pensare ad una loro linearità, ma cogliendone le molteplici stratificazioni che si sono aggiunte nel corso del tempo. Il testo non vuole essere una “summa” del sapere psicoterapeutico/psicoanalitico, ma è il naturale sviluppo dei suoi insegnamenti agli allievi della Sezione Milanese dell’Istituto Nazionale del Training della Società Psicoanalitica Italiana, registrate e trascritte dagli allievi e riviste dall’Autore. Il testo è, a mio modesto parere, un importante strumento da tenere nella cassetta degli attrezzi di chi sente la necessità di confrontarsi con chi ha praticato quest’arte e, soprattutto, ha vissuto in prima persona il presentarsi di nuove idee e tecniche che oggi vengono considerate dei classici, nel bene e nel male.

“L’aspettativa dei giovani analisti, che anch’io avevo ai miei tempi, è di poter arrivare a possedere un sistema organico di teorie e conoscenze tali da poter comprendere e orientarsi con sicurezza nel lavoro clinico. Purtroppo, invece, la conoscenza analitica deriva, e si arricchisce continuamente, dalla pratica clinica, che perciò diventa sempre più efficace. Non è possibile nessuna conoscenza valida sempre. Spesso l’analista , anche quando ha raggiunto un elevato livello di competenza, si meraviglia di quel che ancora non conosce e di come si ampli continuamente la sua visione. Se guardiamo le cose da questo punto di vista, è chiaro che non esiste una teoria generale della psicoanalisi, ossia non esiste una teoria esplicativa che possa aiutarci a comprendere la molteplicità dell’esperienza clinica. Esistono invece alcune ipotesi che possono rivelarsi utile quando sono applicate ad ambiti psicopatologici specifici. In psicoanalisi, come in ogni scienza, non esistono verità eterne…”