Dorino Piras

La Salute, l'Ambiente, il Lavoro

Morti sul lavoro: la società del rischio

icona piras imm.001Ulrich Beck l’ha chiamata “società del rischio” e credo avesse ragione. Bisognerebbe rispolverare con interesse alcune delle sue tesi, proprio nel momento in cui vorrebbero farci credere che esista un’emergenza della mortalità sul lavoro. Forse però non è un’emergenza, ma queste morti sono connesse con il nostro modello di sviluppo che supinamente stiamo continuando a scegliere, sono intrinseche ad esse. Perché i rischi cambiano anche la loro natura: non derivano più dall’esterno, dal non-umano, dalla fatalità naturale, ma dipendono da decisioni. Sono il riflesso di azioni ed omissioni dell’uomo stesso, la conseguenza di forze produttive fortemente sviluppate. La produzione delle condizioni di vita della società nella sua interezza diventa quindi un problema ed oggetto di ripensamento: la società deve venir messa a confronto con se stessa. Paradossalmente infatti sembra quasi che la fonte del pericolo non sia più l’ignoranza ma la stessa conoscenza, non un dominio carente della natura, ciò che si sottrae alla capacità dell’uomo, ma il sistema di norme e di vincoli oggettivi stabilito con la crescita industriale. Cosa vuol dire ciò? Vuol dire che la società in questo sviluppo ha seguito un percorso “suddiviso”, dove il sistema politico-amministrativo e quello tecnico-economico si sono sviluppati in due rami diversi. Da una parte il principio della partecipazione dei cittadini, l’elaborazione condivisa delle decisioni con regole democratiche e l’esercizio del potere politico e del comando che devono derivare dal consenso dei governati. Dall’altro lo sviluppo di un qualcosa che viene percepito come non-politico, ma è invece tutto politico. Il progresso tecnico è equiparato acriticamente a quello sociale e la direzione di sviluppo e i risultati tecnici seguono inevitabili vincoli oggettivi tecnico-economici, dove gli effetti negativi trovano giustificazione nell’innalzamento degli standard di vita. Il problema è che questo processo è completamente sottratto al vaglio politico, possiede un potere di realizzarsi immune alla critica e infinitamente più veloce rispetto alle procedure democratico-amministrative. Dice efficacemente lo stesso Beck: “il progresso sostituisce il voto. Più ancora diventa un sostituto dei problemi, un tipo di consenso preventivo su fini e conseguenze che rimangono ignoti ed innominati. (…) Solo una parte delle competenze decisionali che strutturano la società è legata assieme nel sistema politico e sottoposto ai principi della democrazia parlamentare. Un’alta parte è sottratta alle regole dei controlli e della giustificazione pubblica e delegata alla libertà di investimento delle imprese (…). I cambiamenti sociali sono rimossi come effetti collaterali latenti delle decisioni, dei vincoli e dei calcoli tecnico-scientifici. Ci si afferma sul mercato, si utilizzano le regole di realizzazione dei profitti e così facendo si rovesciano le condizioni della vita quotidiana.(…) Da un lato, le istituzioni del sistema politico presuppongono, per ragioni funzionali e sistemiche, che il ciclo produttivo di industria, tecnologia e economia. Dall’altro ciò fa sì che sotto tale copertura giustificativa venga data per scontata la trasformazione degli ambiti di vita sociale in contraddizione con le regole della democrazia: conoscenza dei fini della trasformazione sociale, discussione, voto, consenso.”  Anch’io la penso come Ewald la cui teoria segna un significativo cambiamento: la costruzione del welfare non deve essere interpretata in termini di mantenimento dell’ordine sociale o di miglioramento della produttività nazionale, ma consolidarlo, ricostruirlo come fornitura di servizi (assistenza sanitaria), creazione di schemi assicurativi e regolazione dell’economia e dell’ambiente in termini di creazione della sicurezza. Questo nuovo welfare è il nostro compito.

I lavoratori della sanità dimenticati

icona piras imm.001In tempi di crisi del sistema sanitario, il lavoro degli operatori della salute è certamente uno degli argomenti su cui si esercitano esperti di ogni caratura con soluzioni talvolta fantasiose.  In pochi, però, arrivano a capire l’organizzazione della diagnosi e cura che oggigiorno si trova ad affrontare le nuove esigenze dei cittadini che ricorrono ai servizi ospedalieri o di base. Compreso chi dovrebbe governare il sistema a livello regionale. Senza addentrarsi in analisi poco adatte a questa piccola nota, molti pensano il lavoro sanitario  come quello di una fabbrica nella quale i diversi lavoratori, nella diversità delle competenze, eseguono fondamentalmente tutti il medesimo compito e ogni unità lavorativa esegue da solo tutti i passi per fabbricare un oggetto. Con questa logica la produzione dell’oggetto sarà funzione del semplice numero di lavoratori il cui contributo sarà la divisione del numero di oggetti prodotti per il numero degli stessi lavoratori. Potremo quindi modulare il semplice numero dei lavoratori per ottenere maggiore o minore produzione o fare in modo che ogni lavoratore produca più velocemente l’oggetto in questione riducendo il tempo di fabbricazione. Ma il sistema delle cure appartiene ad un altro tipo di “fabbrica”. In questo diverso laboratorio ogni singola persona svolge un compito differente, una parte del lavoro finale e per fabbricare anche un unico oggetto i lavoratori devono per forza cooperare. Questa divisione del lavoro è già economicamente più efficiente in quanto la specializzazione permette a ciascuna unità lavorativa di diventare molto esperto in un determinato compito e di portare al massimo, appunto, l’efficienza lavorativa. In questo caso, però, cambiando il numero dei lavoratori – in più o in meno – non si assiste ad una modificazione del prodotto finale in percentuale al numero delle persone che vengono aggiunte o tolte. Paradossalmente, aggiungere o diminuire il personale potrebbe portare allo stesso risultato finale non prevedibile: aggiungere nuove figure lavorative potrebbe portare sia ad un miglioramento che ad un peggioramento se si interferisse con il flusso di lavoro. Questo è quello che succede nell’organizzazione sanitaria: la correttezza – ed anche il numero – delle prestazioni dipende più dall’organizzazione e dalla sapiente miscela delle conoscenze tra medici, infermieri e operatori sanitari, che da conti che scambiano il valore con il costo. Se inoltre inserirete in tutto questo le parole merito, preparazione, capacità di collaborazione, inventiva, capacità di innovazione, ricerca, è possibile che abbiate le chiavi per costruire non solo una nuovo tipo di organizzazione sanitaria più efficace e con costi minori, ma un Paese diverso all’altezza di sfide più complicate.

Ospedalectomia

cambia il piemonte imm.001Qualche anno fa, parlando con Ivan Cavicchi sullo stato della sanità in Piemonte, emersero alcune considerazioni che ancora oggi sono di grande attualità. Soprattutto quella che non abbiamo ancora imparato a porre in chiaro delle valutazioni di impatto socio-sanitario per comprendere gli effetti delle politiche sanitarie sulle popolazioni a cui si applicano. In sostanza, scrivere numeri sulle strutture ospedaliere o territoriali è semplice, ma prevedere i loro effetti reali sulle persone che esprimono bisogni di cure è altra cosa. La stessa determinazione a tavolino di standard sono astrazioni statistiche con poca evidenza scientifica: la “produzione” cala senza una proporzionale riduzione dei costi. E tutto ciò porta ad una importante divaricazione: da una parte un problema squisitamente della regione di quantità di sistema e quindi di spesa; dall’altra un problema che riguarda i cittadini che è quello di qualità del sistema e quindi di tutela dei bisogni delle persone.

La politica dovrebbe essere quello strumento in grado di conciliare quelle due cose. La scelta però è stata quella di scegliere di agire solamente da un lato del problema arrivando a compiere quella che Ivan ha chiamato “ospedalectomia” e cioè: riduzione dello standard dei posti letto ospedalieri; adeguamento al ribasso delle pianto organiche; soppressione di unità operative; riconversione dei ricoveri ordinari in ricoveri diurni e quindi dei ricoveri diurni in assistenza territoriale, residenziale e ambulatoriale a loro volta sempre meno finanziati e riversati sulle possibilità economiche delle famiglie, promettendo poi successivi atti di riforma e finanziamento che non hanno superato il livello dell’enunciazione. In breve lo schema logico è sempre lo stesso: prima si taglia, poi si vedrà.

Concetto ancora meglio espresso in un suo scritto dove ci ricorda che “il punto di fondo, che non va mai dimenticato, è che qualsiasi standard di posti letto è funzione del territorio, per cui se il territorio non viene ripensato, qualsiasi riduzione di standard  rischia di essere una banale riduzione di assistenza. Se non si risolve questo problema di concomitanza, presumibilmente i problemi di mobilità cresceranno. Quanto al territorio non c’è solo un problema di genericità, si intravedono vistose contraddizioni come quella tra l’idea di “rete territoriale”  e il distretto definito come “macrostruttura”.

Infine facciamo nostri quattro amichevoli suggerimenti che discendono da quanto detto:
· invertire l’ordine applicativo del riordino cioè partire dalla riorganizzazione del territorio al fine di rimodulare la funzione ospedaliera per non creare situazioni di abbandono;
· scrivere subito una nuova delibera  performativa “adeguamento della rete territoriale a sostegno della rimodulazione della rete ospedaliera”;
· mettere mano ad un disegno di riforma complessivo del sistema  che vada oltre la logica del riordino, dell’adeguamento, della rimodulazione e che affronti i problemi dei modelli, dei modi di essere, delle prassi, dei metodi, del lavoro… perché la sanità è fatta soprattutto da persone e non da cose;
· fare in modo che le  persone non siano  “riordinate” nei loro bisogni di salute ma siano soggetti di riforma.

E questa è solo una parte di quello che ci proponiamo di fare.

Liste d’attesa in sanità

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La prevalenza per tumore, cioè il numero dei malati del passato sopravvissuti alla malattia, è altissima in paesi maggiormente sviluppati come il nostro, mentre risulta decisamente inferiore nei paesi più poveri in Europa. Nei paesi ricchi è alta sia la probabilità di ammalarsi di cancro che di guarire da esso. Ma, come tutti sappiamo, nessuno si può considerare guarito definitivamente da una malattia di così forte impatto sociale, e la lista delle persone con esperienza oncologica si ingrossa ogni giorno andando a incrementare la domanda sanitaria. È fortemente suggestivo come il problema delle liste d’attesa, soprattutto riguardo alla specialistica, trovi una delle sue spiegazioni considerando il crescente numero di persone guarite o curate che hanno sofferto per patologie cronico degenerative come quelle a carattere oncologico o cardiovascolare, e ne siano uscite dopo la somministrazione di adeguate cure. D’altronde è un fatto intuitivo come il numero dei soggetti che hanno superato patologie gravi sia destinato a crescere nel futuro. Questo problema, cioè l’allungamento dei tempi d’attesa per la soddisfazione delle prestazioni con il formarsi di code sempre più consistenti, è stato uno dei cavalli di battaglia e ideologici delle forze conservatrici per criticare l’inefficienza del sistema sanitario pubblico. Tenendo a mente quanto illustrato prima, questo risultato può invece essere considerato la spia di un sistema sanitario pubblico che ha prodotto salute per molti malati, ma che non è stato contemporaneamente efficace nel fermare il numero di nuovi casi.

Seguendo questo filo logico risulta immediatamente comprensibile come il miglior intervento per porre un freno al crescere di questa richiesta, contenendo quindi contemporaneamente il problema delle liste d’attesa, non può che essere un’azione decisa nel campo della medicina preventiva. Tenendo conto queste premesse è logico osservare come l’adesione alle linee di tendenza della medicina a carattere privatistico rappresenti un pericolo per il futuro: solo un forte intervento pubblico può determinare il contenimento dei costi sanitari.

Mettiamoci in gioco!

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ECCOCI!

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Teoria delle pulsioni e delle emozioni – da Sigmund Freud a Jaak Panksepp. Cezary Żechowski

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Teoria delle pulsioni e delle emozioni – da Sigmund Freud a Jaak Panksepp

Cezary Żechowski

(Theory of drives and emotions –from Sigmund Freud to Jaak Panksepp)

 Psychiatr. Pol. 2017; 51(6): 1181–1189.   PL ISSN 0033-2674 (PRINT), ISSN 2391-5854 (ONLINE) www.psychiatriapolska.pl DOI: https://doi.org/10.12740/PP/61781

Abstract

L’articolo discute lo sviluppo della teoria psicoanalitica nella direzione di ampliare la riflessione su di sé sulla base di dati derivati da studi empirici diversi dal caso clinico. Particolarmente degna di nota è la convergenza che è seguita tra neuroscienze e psicoanalisi e l’affermarsi della cosiddetta neuropsicoanalisi. Di conseguenza, ciò ha portato ad espellere le ipotesi empiriche e ad avviare ricerche sui meccanismi di difesa, sul sé, sulla memoria, sui sogni, sull’empatia, sull’inconscio dinamico e sui processi emotivo-motivazionali (teoria delle pulsioni). Attualmente la neuropsicoanalisi si è costituita come disciplina che contiene in sé tre aree distinte: le neuroscienze psicodinamiche, la neuropsicoanalisi clinica e la costruzione della teoria. L’articolo presenta la teoria dei sistemi emozionali di Jaak Panksepp come esempio di neurobiologia integrata degli affetti, biologia comportamentale, psicologia evolutiva e psicoanalisi. La teoria dei sistemi emozionali include la descrizione del sistema SEEKING che rappresenta il sistema motivazionale di base dell’organismo. Partendo da una nuova prospettiva sulla teoria delle pulsioni descritta da Sigmund Freud, offre la possibilità di prendere in considerazione i sistemi emotivi e motivazionali nell’ambito della comprensione dei disturbi mentali come la depressione, la dipendenza e la psicosi, che è il nucleo del pensiero psicoanalitico.

 Neuroscienze e psicoanalisi

Lo sviluppo di nuove tecnologie, come in primo luogo la neuroimmagine, ha portato a un significativo progresso delle neuroscienze, che dalla fine del XX secolo hanno esplorato nuove aree di ricerca, prima non disponibili. Una di queste aree è rappresentata dai concetti di mente e terapia sviluppati dalla psicoanalisi. Infatti, il neurobiologo premio Nobel Eric Kandel [1, 2] ha scritto nelle sue opere, oggi considerate canoniche, che la psicoanalisi porta la visione più coerente e soddisfacente della mente. Egli ha proposto che la neurobiologia, la psicologia cognitiva e la psicoanalisi uniscano i loro sforzi per sviluppare un concetto comune del funzionamento del cervello umano e della psiche. A suo avviso, tale modello sarebbe molto utile per la comprensione delle condizioni di salute e di sviluppo, nonché per l’incidenza e la terapia dei disturbi mentali. Kandel ha sottolineato che questo modello non minaccerebbe l’indipendenza di ogni disciplina né limiterebbe la libertà di sviluppo e di ricerca. (altro…)

Psicoanalisi della guerra ovvero “il Terrificante”

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“Personalmente ritengo che la guerra rappresenti una istituzione sociale volta a curare angosce paranoicali e depressive esistenti (in misura più o meno marcata e più o meno risolte in termini di integrazione con la realtà) in ogni uomo. Una tale organizzazione ha due funzioni di sicurezza, e può essere rappresentata come un iceberg, con una parte superficiale e visibile, e un’altra sommersa e nascosta nelle acque profonde. La prima parte riguarda la difesa da un pericolo esterno (il nemico reale in carne ed ossa, tanto per intenderci), mentre l’altra, quella nascosta, è inconscia e riguarda un’operazione di difesa e di sicurezza di fronte a terribili entità fantasmatiche, senza carne né ossa, ma che hanno ima pericolosità assoluta (quella che appare, poniamo, nell’incubo) e che potremmo chiamare “il Terrificante.”

Se si rimane sul puro terreno politico-militare, sulla parte esterna cioè dell’iceberg, l’opinione più ovvia e generalmente condivisa da tutti è che il pericolo dal quale la guerra ci difende è il nemico che minaccia la nostra sicurezza: il pericolo è cioè un aggressore esterno. 

Se però si adopera lo strumento psicoanalitico, lo strumento cioè specificamente inventato per indagare l’inconscio, la parte immersa dell’iceberg, ovvero la parte invisibile della guerra come organizzazione di sicurezza, serve invece per difendersi dal “Terrificante,” quale nemico interno e assoluto come l’incubo, attraverso una operazione che trasformi tale entità terrificante ma in definitiva inaffrontabile e invulnerabile (proprio come avviene negli incubi) in un nemico esterno in carne ed ossa e che possa essere realmente affrontabile e colpito. Se ora ci fermiamo un poco a riflettere su questi singolari rapporti tra questi due sistemi di sicurezza, coimplicati nella guerra, si arriva alla paradossale conclusione che la guerra è un’organizzazione di sicurezza non già perché permette di difenderci da nemici reali, ma perché riesce a trovare e al limite ad inventare dei nemici reali da uccidere, in caso contrario la società rischierebbe di lasciare gli uomini senza difesa di fronte all’emergenza del terrificante come puro nemico interno. “

Franco Fornari – Psicoanalisi della guerra

 

Psicoanalisi della guerra

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“La prima domanda rivolta dall’uomo della strada ad uno psicoanalista che tratti della guerra potrebbe essere questa: con che diritto uno psicoanalista si occupa di queste cose che non sono di sua competenza? La mia risposta è che lo psicoanalista, analizzando persone che vivono problemi politici, si trova in una condizione privilegiata per osservare le modalità individuali, i congegni interni cioè, attraverso i quali vengono elaborate le esperienze politiche e le esperienze sociali in genere. Egli è perciò nelle condizioni migliori per osservare l’influenza che l’inconscio in genere esercita sulle modalità di vivere le opzioni politiche o le modalità in cui inconsciamente la guerra è fantasticata dagli uomini. In modo particolare lo psicoanalista, attraverso il linguaggio simbolico e la dialettica affettiva (che ha le sue leggi particolari diverse dalla dialettica intesa come pura esperienza cognitiva) può osservare che le opzioni politiche e le esperienze degli individui in guerra — oltre a contenere motivazioni realistiche — vengono interferite da sistemi di difesa, da angosce psicotiche (cioè da paure vistosamente illusorie). È, quindi quest’ultima constatazione che sembra giustificare l’esercizio della ricerca psicoanalitica in un settore che, se indagato con uno strumento appropriato, rivela singolarità fattuali e grosse deformazioni di realtà che si avvicinano alle modalità di esperienza psicopatologica.”

 Franco Fornari – Psicoanalisi  della guerra

 

Peter Fonagy con IPP Torino

 

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