(via Italia Futura) di Walter Ricciardi
Direttore dell’Istituto di Igiene dell’Università Cattolica di Roma e dell’Osservatorio Nazionale per la Salute nelle Regioni Italiane. E’ il primo Editor non inglese dell’Oxford Handbook of Public Health e componente non americano del National Board of Medical Examiners degli Stati Uniti d’America
Quello dei ticket è l’ultimo intervento del Ministero dell’Economia in ambito sanitario introdotto senza prendere in alcuna considerazione le implicazioni sulla salute dei cittadini, in particolare di quelli che, avendo redditi limitati, opteranno per beni primari quali alimentazione e casa, prima di ricorrere a servizi di prevenzione, diagnosi e cura che potrebbero salvargli la vita e che dovrebbero essere già finanziati dalle tasse e gestiti da manager competenti in grado di conciliare la qualità dei servizi con le sempre più scarse risorse disponibili. La letteratura scientifica che dimostra una immediata e negativa correlazione tra ticket e condizioni di salute delle persone appartenenti ai ceti sociali più svantaggiati è monumentale e concorde nel sottolineare che è solo facendo funzionare adeguatamente le strutture sanitarie che si garantisce la tutela della salute dei cittadini, indipendentemente da ogni condizione di reddito o di residenza. Quando si introduce una compartecipazione finanziaria del cittadino alla spesa sanitaria, questa determina sempre una barriera di ingresso che danneggia la salute dei più poveri. Prima di fare test laboratoristici o strumentali che potrebbero portare a diagnosi precoci di patologie gravi o prima di fare interventi specialistici che potrebbero migliorare la prognosi, i cittadini che dovranno pagare un ticket di 10 euro per le prestazioni specialistiche, sommato all’eliminazione della franchigia di 36,15 euro, ci penseranno due volte e questo porterà inevitabilmente ad una riduzione dell’aspettativa di vita e della qualità della vita residua, soprattutto dei più poveri. Ciò consolida il trend che vede nel nostro Paese la crescita di un’enorme diseguaglianza tra cittadini, ora raddoppiata dall’introduzione dei ticket. Se infatti la prima discriminazione è legata al reddito, la seconda è correlata alla residenza regionale. Alcune regioni, non a caso quelle in cui i servizi sanitari sono più efficaci ed efficienti, hanno infatti deciso di non introdurre i ticket o di introdurli in modo attenuato. Questi esprimeranno quindi tutto il loro potenziale negativo nelle regioni più in difficoltà e quasi sempre peggio gestite, i cui cittadini saranno penalizzati due volte, una per il reddito, l’altra per la ventura di nascere o vivere in regioni in cui la sanità, pur arrivando ad assorbire l’80% del bilancio regionale, è gestita senza sistemi adeguati di programmazione e controllo ed affidata a direttori generali spesso pagati meno dei propri dipendenti e, come tali, totalmente proni alle indicazioni del potere politico che li ha nominati. Gli effetti sono già tragicamente manifesti. Gli italiani del Sud, Lazio incluso, hanno già visto la propria aspettativa di vita smettere di crescere, in particolare le donne, ed ormai la differenza tra un campano (quello che vive di meno) ed un trentino o un marchigiano (quelli che vivono di più) è di quattro anni. Il che significa che i cittadini meridionali hanno visto annullato, negli ultimi dieci anni, tutto il vantaggio in termini di aspettativa di vita che avevano maturato dal dopoguerra in poi, quando le politiche economiche e sociali del Paese erano effettivamente votate alla crescita ed all’equità nel Paese. In Italia si sta verificando oggi in modo eclatante ciò che Hart aveva descritto negli anni Sessanta come “legge dell’assistenza inversa” e cioè il contemporaneo aumento dei bisogni e della domanda di servizi cui fa da contraltare la crescente scarsità di risorse disponibili. In questo contesto, per avere successo, un sistema sanitario pubblico come il nostro deve avere almeno due requisiti, politici onesti e con visione strategica e tecnici particolarmente competenti. In alcune regioni la legge dell’assistenza inversa si manifesta anche con un’altra evidenza: proprio in quelle in cui lagestione è più difficile e le risorse più scarse (ad esempio quelle in piano di rientro), sia i politici che i manager da loro scelti (e non si fa fatica a capire il perché) sono scadenti e questo determina più che uno stallo, una totale degenerazione del concetto di bene pubblico con, di fatto, la contemporanea emergenza di situazioni disastrose sia dal punto di vista finanziario che di salute dei cittadini. Quali nuovi modelli potrebbero garantire la soluzione a questi problemi? Più che di modelli organizzativi si tratta di modelli culturali che, come è noto, sono difficili e lenti da cambiare, ma potrebbe aiutare un meccanismo di valutazione centrale rigoroso e trasparente, con dati sui risultati sanitari pubblicati con continuità e diffusi adeguatamente dai media. In tutti i Paesi in cui la cosiddetta “public disclosure” è stata effettuata, vi è stata un’accelerazione bruciante nel senso di responsabilità dei politici a nominare manager bravi ed onesti e dei professionisti, sia sanitari che amministrativi, a svolgere il proprio ruolo con competenza. Sappiamo che il Ministro della Salute è profondamente convinto di ciò e sta lavorando in modo intenso per far sì che essa diventi una realtà anche nel nostro Paese e dovrebbe essere un impegno di tutti quello di supportarlo in questo sforzo. Si tratta di introdurre anche in Italia il concetto di “accountability” che, come diceva Montanelli, “è parola chiave della democrazia anglosassone…ma in Italia non è stata ancora tradotta”.
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