ago 062009
 
articlesUn bellisimo scritto da l’Internazionale via pippo Civati
Quando Vivek Ranadivé decise di allenare la squadra di basket di sua figlia Anjali,  fissò due princìpi fondamentali. Il primo era che non avrebbe mai alzato la voce. Era il campionato juniores, la squadra era composta per lo più da dodicenni e sapeva per esperienza che con le ragazzine di quell’età è inutile strillare. Sul campo di basket si sarebbe comportato come nella sua ditta di software: avrebbe parlato piano e con calma, e avrebbe convinto le ragazze che il suo metodo era quello giusto facendo appello alla ragione e al buon senso. Il secondo principio era ancora più importante. Ranadivé era sconcertato dal modo in cui gli americani giocavano a pallacanestro. È nato a Mumbai ed è cresciuto giocando a cricket e a calcio. La prima volta che ha visto una partita di basket gli è sembrato un gioco idiota. La squadra A segnava e poi si ritirava immediatamente nella sua metà campo. La squadra B rimetteva in gioco la palla e la portava nella metà campo della squadra A che stava lì ad aspettarla pazientemente. Poi il processo s’invertiva. Il campo da basket era lungo 28 metri, ma per la maggior parte del tempo una squadra ne difendeva solo 8, lasciando gli altri 20 agli avversari. Qualche volta una squadra giocava a tutto campo, cioè cercava di impedire agli avversari di avanzare con la palla. Ma solo per qualche minuto. Ranadivé aveva l’impressione che nel mondo del basket ci fosse una specie di accordo su come doveva essere giocata una partita, e gli sembrava che quell’accordo aumentasse il divario tra le squadre forti e le squadre deboli. Le squadre forti avevano giocatori molto alti, in grado di palleggiare e tirare bene, e di eseguire alla perfezione gli schemi di gioco. Perché allora le squadre deboli permettevano alle più forti di fare quello che sapevano fare meglio? Ranadivé guardò le sue ragazze. Morgan e Julia erano abbastanza esperte. Ma Nicky, Angela, Dani, Holly, Annika e sua figlia Anjali non avevano mai giocato. Non erano neanche tanto alte. Non sapevano tirare. Non erano particolarmente brave a palleggiare. Non erano il tipo di ragazze che gioca a palla in cortile tutte le sere. Erano quasi tutte “ragazzine bionde dei quartieri alti”, come dice Ranadivé, nate e cresciute nel cuore della Silicon valley. Erano figlie di programmatori e laureati. Facevano ricerche di scienza, leggevano libri, andavano in vacanza sulla neve con i genitori e sognavano di diventare biologhe marine. Ranadivé sapeva che se avessero giocato nel modo tradizionale, cioè se avessero permesso alle avversarie di portare la palla dalla loro parte del campo senza opporre resistenza, avrebbero sicuramente perso. Non è così. I Davide vincono spesso. Il politologo Ivan Arreguin-Toft ha analizzato tutte le guerre che sono state combattute negli ultimi duecento anni tra nazioni forti e deboli. E ha scoperto che i Golia hanno vinto solo nel 71,5 per cento dei casi. Sembra incredibile. Arreguin-Toft ha esaminato le guerre in cui un avversario era almeno dieci volte più potente dell’altro, in termini di armamenti e di popolazione: eppure, anche in quei contesti sbilanciati, il più debole ha vinto una volta su tre.
La conquista di Aqaba
Nella storia biblica, all’inizio Davide indossa una maglia di ferro e un elmo di ottone e ha una spada: si prepara a un duello convenzionale con Golia. Ma poi si ferma. “Non riesco a muovermi con questa roba addosso. Non ci sono abituato”, dice, e raccoglie cinque pietre lisce per la sua fionda. Cosa succede quando chi è svantaggiato riconosce la sua debolezza e decide di adottare una strategia non convenzionale? Per scoprirlo, Arreguin-Toft ha analizzato nuovamente i suoi dati. E ha scoperto che in quei casi la percentuale dei Davide vincenti passa dal 28,5 al 63,6. Quando gli svantaggiati decidono di non rispettare le regole dei Golia, vincono. “Anche quando tutto quello che crediamo di sapere sul potere ci dice che dovrebbero perdere”, conclude. Pensate a come T.E. Lawrence (più noto come Lawrence d’Arabia) verso la fine della prima guerra mondiale guidò la rivolta contro l’esercito ottomano che occupava l’Arabia. Gli inglesi appoggiavano i ribelli e il loro obiettivo iniziale era Medina. La città si trovava alla fine della lunga ferrovia costruita dai turchi, che attraversava il deserto di Hejaz verso sud fino a Damasco. I turchi avevano mandato molti soldati a Medina, e gli inglesi volevano che Lawrence chiamasse a raccolta gli arabi per annientare le  truppe ottomane prima che arrivassero a minacciare l’intera regione. Ma quando Lawrence vide la sua banda di beduini scalcinati si rese conto che un attacco diretto a Medina non avrebbe mai funzionato. E poi perché era tanto importante prendere quella città? I turchi se ne stavano a Medina “immobili e sulla difensiva”. Erano tantissimi. Consumavano una tale quantità di cibo, acqua e carburante che non potevano permettersi di attraversare il deserto. Invece di attaccarli nel loro punto di forza, ragionò Lawrence, bisognava colpirli dove erano più deboli: lungo la linea ferroviaria che li collegava a Damasco. Invece di concentrare l’attenzione su Medina, doveva attaccarli su un fronte più ampio possibile. I beduini al comando di Lawrence non erano truppe addestrate. Erano nomadi. Reginald Wingate, uno dei comandanti dell’esercito britannico nella regione, li definì “una marmaglia inesperta, gente che non ha mai preso in mano un fucile”. Ma erano resistenti e si muovevano bene. Nella primavera del 1917 portarono a termine una serie di azioni ravvicinate: il 24 marzo fecero saltare con la dinamite 60 tratti di ferrovia e tagliarono la linea del telegrafo a Buair, il 25 marzo sabotarono un treno e 25 tratti di ferrovia ad Abu al-Naam, il 27 fecero saltare le rotaie e tagliarono la linea del telegrafo a Istabl Antar e il 29 attaccarono una guarnigione turca e fecero deragliare un treno. Poi il 31 tornarono a Buai e sabotarono di nuovo la linea ferroviaria, il 3 aprile fecero saltare undici tratti di ferrovia a Hediah, il 4 e il 5 attaccarono la linea ferroviaria nella zona di Wadi Dhaiji, e il 6 aprile attaccarono due volte i turchi. Il capolavoro di Lawrence fu l’assalto al porto di Aqaba. I turchi si aspettavano un attacco da ovest, da parte delle navi britanniche che pattugliavano le acque del golfo. Lawrence, invece, decise di attaccare da est, raggiungendo la città dal deserto, e per farlo guidò i suoi uomini in un’audace cavalcata di quasi mille chilometri, risalendo l’Heiaz fino al deserto siriano e riscendendo verso Aqaba. Era estate, dovevano attraversare uno dei territori più inospitali del Medio Oriente, e Lawrence ci aggiunse una deviazione fino alla periferia di Damasco per depistare i turchi. Quando finalmente arrivarono ad Aqaba, morti di sete e di fatica, i guerrieri di Lawrence, che erano poche centinaia, uccisero e catturarono 1.200 turchi. Morirono solo in sei. Per un semplice motivo: gli ottomani furono colti di sorpresa, non pensavano che i loro avversari sarebbero stati così folli da arrivare dal deserto. Fu la grande intuizione di Lawrence. Davide può battere Golia usando l’astuzia invece della forza, e questa formula funziona per tutti i deboli. Comprese le ragazzine bionde che giocano a pallacanestro.
In tempo reale
Vivek Ranadivé è un uomo elegante, magro e agile, ha un modo di fare gentile e si muove con disinvoltura. Suo padre, un pilota, era stato arrestato da Indira Gandhi con l’accusa di aver messo in pericolo la sicurezza degli aerei indiani. Ranadivé ha studiato al Mit perché da ragazzino aveva visto un documentario sull’università e aveva deciso che era perfetta per lui. Questo succedeva negli anni settanta, quando per andare a studiare all’estero e per acquistare valuta straniera ci voleva l’autorizzazione del governo indiano. Ranadivé si accampò davanti all’uficio del governatore della Reserve bank of India finché non la ottenne. Nel 1985 ha fondato una società di software nella Silicon valley specializzata nell’elaborazione real time, come la chiamano gli addetti ai lavori. Se il proprietario di un’azienda aspetta la fine del mese per recuperare le sue fatture e fare i conti, usa un metodo che in informatica si chiama batch processing, un’elaborazione dei dati accorpata e differita. Di conseguenza c’è uno scarto temporale tra gli avvenimenti che si veriicano nell’azienda (le vendite) e la loro comprensione da parte del proprietario. Un tempo anche Wall street funzionava così. Le informazioni in base alle quali un operatore prendeva le sue decisioni erano sparse su vari database. L’operatore le metteva insieme e le analizzava, poi vendeva o comprava. La società di Ranadivé, la Tibco, fa esattamente questo: raggruppa il contenuto di quei database in un unico flusso di dati, per consentire all’operatore di trovare subito quello che gli serve. È l’elaborazione in tempo reale. Oggi il software della Tibco è installato su quasi tutti i computer di Wall street. Qualche anno fa Ranadivé ha scritto un articolo in cui sosteneva che anche la Federal reserve dovrebbe prendere le sue decisioni in tempo reale, e non una volta al mese. “Oggi tutto succede in tempo reale”, spiega. “Per esempio, quando un certo tipo di scarpa non si vende, quelli che la fabbricano in Cina non devono aspettare sei mesi per scoprirlo. Grazie al mio software, lo sanno quasi subito. Il mondo lavora in tempo reale, ma il governo ancora no. Modiica i suoi parametri a distanza di mesi. Il compito del governo è mantenere un buon clima economico, ma se in casa nostra ci comportassimo come lo stato, dovremmo aspettare due mesi prima di accendere il riscaldamento e moriremmo di freddo”. Ranadivé sostiene che la Fed dovrebbe inserire i suoi dati economici in un unico grande database e creare un programma che li analizzi subito e introduca gradualmente gli aggiustamenti dei tassi di interesse e della quantità di denaro in circolazione. “Può essere tutto automatizzato”, assicura.
Come una quadriglia
Potete immaginare cosa direbbe Ben Bernanke di un’idea simile. Il governatori della Fed, e in generale le persone come lui, sono convinte che la banca centrale sia un’istituzione salomonica, che un intervallo di cinque o di otto settimane tra un aggiustamento economico e l’altro sia indispensabile per poter prendere una decisione. Per Ranadivé, invece, questo “processo decisionale” è solo una scappatoia per giustificare le dificoltà create dallo sfasamento: la Fed dice di avere bisogno di tempo per decidere perché è indietro di diverse settimane rispetto alla realtà. Non c’è da meravigliarsi quindi se Ranadivé considera insensato il modo in cui si gioca a basket. Una partita di pallacanestro a livello professionale dura 48 minuti, durante i quali le squadre si alternano nel possesso di palla circa ogni venti secondi, avanti e indietro, avanti e indietro. Ma una buona metà di quei venti secondi è occupata dai preliminari e dalle formalità. Il playmaker risale il campo palleggiando. Si ferma a otto metri dal canestro degli avversari e chiama uno degli schemi che la squadra ha provato centinaia di volte durante gli allenamenti. È solo a quel punto che l’altra
squadra entra in azione e comincia a contrastare ogni passaggio e ogni tiro. Il vero gioco occupa solo la metà di quei 20 secondi, perciò in realtà la partita non dura 48 minuti ma 24, e in quei 24 minuti tutto succede in uno spazio molto circoscritto. È formale e convenzionale come una quadriglia del settecento. I sostenitori di questa danza dicono che i difensori devono correre nella loro metà campo per prepararsi all’arrivo degli avversari. Ma il motivo per cui devono prepararsi è che indietreggiando permettono agli attaccanti dell’altra squadra di eseguire un gioco nel quale si sono esercitati alla perfezione. Gli insorti invece agiscono in tempo reale. In quella primavera del 1917 Lawrence attaccò i turchi quasi tutti i giorni, perché sapeva che accelerando il ritmo dei combattimenti la guerra diventava una prova di resistenza, e le prove di resistenza favoriscono chi è svantaggiato. “E accadde che il filisteo si levò e si veniva avvicinando sempre più incontro a Davide, e Davide si affrettava e correva verso la linea di battaglia incontro al filisteo”, dice la Bibbia”. Quindi Davide mise la mano nella sua borsa e ne prese una pietra e la frombolò, così che colpì il filisteo in fronte”. È la seconda frase, quella della fionda, ad aver reso famoso Davide. Ma la prima frase è altrettanto importante: Davide cambia il ritmo dello scontro. Lo accelera. “L’improvvisa corsa in avanti di Davide probabilmente sorprende Golia fino a immobilizzarlo e a farne un bersaglio più facile”, scrive il poeta e critico Robert Pinsky in The life of David. Secondo Pinsky, Golia è “un playmaker pronto a lanciare la palla in una direzione o nell’altra”. Ma Davide lo incalza. È quello che fanno tutti i Davide quando vogliono battere i Golia.
Ruba la palla
La squadra di Ranadivé giocava nella National junior basketball league in rappresentanza di Redwood City. Le ragazze si allenavano alla Paye’s Place, una palestra della vicina San Carlos. Dato che non aveva mai giocato a basket, Ranadivé chiese l’aiuto di una serie di esperti. Il primo era Roger Craig, un ex giocatore dei San Francisco 49ers, che si occupava anche dello sviluppo commerciale della Tibco. Quando giocava a football, Craig era famoso per i duri allenamenti a cui si sottoponeva tra una stagione e l’altra. La maggior parte dei suoi compagni di squadra nella National football league oggi si limita a giocare a golf. Lui ha partecipato a sette maratone. Quando Craig accettò l’invito di Ranadivé reclutò anche sua figlia Rometra, che aveva giocato a basket in prima divisione alla Duke e alla University of Southern California. Di solito Rometra aveva il compito di marcare la migliore giocatrice della squadra avversaria per tagliarla fuori. Le altre ragazze la adoravano. “È sempre stata come una sorella maggiore per me”, dice Anjali Ranadivé. “È stato bellissimo lavorare con lei”. La Redwood City costruì la sua strategia intorno a due regole che ogni squadra di pallacanestro deve rispettare se vuole far avanzare la palla. La prima riguarda la rimessa laterale. Quando una squadra segna, un giocatore dell’altra squadra porta la palla fuori dal campo e ha cinque secondi per passarla a un compagno in campo. Se supera quel limite di tempo, deve cedere la palla all’altra squadra. Di solito questo non è un problema, perché raramente le squadre contestano il passaggio. In genere si precipitano verso la loro parte del campo. La squadra di Redwood City invece non lo faceva. Ogni ragazza rimaneva attaccata alla sua avversaria. Durante il pressing, di solito il difensore rimane alle spalle dell’attaccante che sta marcando, per ostacolarlo nel momento in cui prende la palla. Le ragazze della Redwood City, invece, si mettevano davanti alle avversarie, per impedirgli di raccogliere il passaggio. E non marcavano la giocatrice che lanciava la palla in campo. Perché preoccuparsene? Ranadivé usava la giocatrice in più come jolly, che poteva anche fare da secondo difensore nei confronti della giocatrice migliore dell’altra squadra. “Pensa al football”, dice Ranadivé. “Il quarterback può correre con la palla. Può lanciarla in tutto il campo, eppure completare un passaggio è difficilissimo”. Nel basket è ancora più dificile. Il campo è più piccolo. Il tempo è limitato a cinque secondi. La palla è più grande e più pesante. Spesso le avversarie della Redwood City non riuscivano a effettuare il passaggio entro cinque secondi. La giocatrice che doveva tirare si faceva prendere dal panico all’idea che i cinque secondi stavano per scadere e lanciava la palla dove capitava. Oppure il suo passaggio veniva intercettato da una delle avversarie. Le ragazze di Ranadivé erano terribili da questo punto di vista. La seconda regola è quella che impone a una squadra di superare la metà campo con la palla entro dieci secondi. Se le avversarie riuscivano a rispettare il limite di tempo per la rimessa laterale, le ragazze della Redwood City si concentravano su questo secondo limite. Si avvicinavano alla ragazza che aveva ricevuto il passaggio e la “intrappolavano”. Questo era il compito principale di Anjali. Balzava in avanti e bloccava la giocatrice, allungando le braccia più che poteva. A volte riusciva a toglierle la palla. Altre volte quella si lasciava prendere dal panico e se ne liberava, oppure si immobilizzava e l’arbitro finiva per fischiare. “Quando abbiamo cominciato, nessuna di noi sapeva giocare in difesa”, dice Anjali. “Così mio padre continuava a ripetere per tutta la partita: ‘Il vostro compito è marcare le avversarie e fare in modo che non prendano mai la palla lanciata da fuori campo’. Rubare la palla a qualcuno è la sensazione più bella del mondo. Facevamo pressing e rubavamo la palla continuamente. Le avversarie si innervosivano da morire. C’erano squadre molto più forti di noi, che giocavano da tanto tempo, e noi le battevamo”. Le ragazze della Redwood City andavano in vantaggio: 4-0, 6-0, 8-0, 12-0. Una volta si ritrovarono in testa 25-0. Dato che di solito rubavano la palla sotto il canestro delle avversarie, non dovevano quasi mai rischiare di fare lanci lunghi che richiedevano abilità e pratica. Tiravano da sotto il canestro. A una delle poche partite in cui la squadra ha perso l’anno scorso, si erano presentate solo cinque giocatrici: non avevano cambi. Ma non si erano fatte scoraggiare e avevano fatto pressing lo stesso. Perché no? Alla fine avevano perso per appena tre punti. “Quel tipo di difesa ci ha permesso di nascondere le nostre debolezze”, dice Rometra Craig, che si è dimostrata molto utile quando la squadra è arrivata ai campionati regionali. “Potevamo nascondere il fatto che non avevamo delle brave tiratrici da fuori campo e anche che non eravamo molto alte. Finché eravamo forti in difesa, potevamo rubare la palla e tirare da sotto il canestro. Sono stata onesta con le ragazze. ‘Non siamo la migliore squadra di basket del mondo’, gli ho detto. E loro hanno capito benissimo quello che dovevano fare”. Lawrence attaccò i turchi dove erano più deboli, lungo la ferrovia, e non dove erano più forti. La Redwood City approfittò della rimessa in campo: il momento in cui una squadra forte è vulnerabile quanto una squadra debole. Lawrence allargò più che poté il campo di battaglia. E le ragazze della Redwood City fecero la stessa cosa: estesero la difesa a tutto il campo. Il pressing a tutto campo è una questione di gambe, non di braccia. Sostituisce il virtuosismo con la resistenza. È un tipo di basket per quelli che “non sono abituati alla guerra convenzionale, che puntano sulla velocità, la resistenza, l’intelligenza individuale e il coraggio”. “È una strategia molto faticosa”, dice Roger Craig. Lui e Ranadivé sono in una sala conferenze della Tibco e ricordano quel bel periodo. Ranadivé è alla lavagna e disegna gli schemi di pressing della Redwood City. Craig è seduto al tavolo. “Le mie ragazze dovevano essere più in forma delle altre”, dice Ranadivé. “Le portavo a correre, correre, correre. Non avevamo abbastanza tempo per insegnargli tutte le tecniche, così ci siamo preoccupati semplicemente che arrivassero alla partita in buona forma fisica e conoscessero le regole del gioco. In questi casi conta soprattutto la grinta, perché ci si stanca molto”. Si gira verso Craig e gli chiede: “Com’era il nostro grido di battaglia?”. Ci pensano un momento e poi strillano all’unisono: “Uno, due, tre, grinta!”. Tutto qui. La ilosoia della Redwood City era tutta basata sulla determinazione a impegnarsi al massimo.
Gli strumenti del mestiere
Nel 1981 Doug Lenat, un informatico dell’università di Stanford, si iscrisse al torneo Traveller trillion credit squadron di San Mateo, in California. Era un gioco di guerra. I partecipanti avevano ricevuto con grande anticipo diversi volumi di regole, e avevano dovuto progettare la loro lotta di navi da guerra con un budget da un trilione di dollari. Poi, nel corso di un weekend, dovevano schierare le lotte una contro l’altra. “Immaginate un enorme auditorium pieno di tavoli, e a ogni tavolo una coppia”, racconta Lenat. “Chi vince va avanti. Chi perde è eliminato, e il campo di battaglia diventa sempre più piccolo, mentre il pubblico continua ad aumentare”. Lenat aveva creato un programma di intelligenza artificiale che aveva chiamato Eurisko, e aveva deciso di inserirci solo le regole del torneo. Non aveva dato nessun suggerimento al programma, né particolari indicazioni strategiche. Aveva semplicemente lasciato che Eurisko trovasse la sua strada. Per circa un mese, tutte le notti, su cento computer dello Xerox parc di Palo Alto, Eurisko aveva esaminato il problema, finché aveva trovato una soluzione. La maggior parte delle altre squadre sarebbe scesa in campo con una lotta tradizionale: un gruppo di navi di varie dimensioni, ognuna ben difesa contro gli attacchi del nemico. Eurisko la pensava diversamente. “Il programma mi suggerì di spendere il trilione di dollari in un numero astronomico di piccole torpediniere pesantemente armate ma indifese e poco agili”, racconta Lenat. “Stavano praticamente ferme, e appena venivano colpite affondavano. Il nemico ne affondava una dopo l’altra. Ma non importava, perché ne avevamo tante”. Lenat vinse il torneo. L’anno successivo si iscrisse di nuovo, ma le regole erano cambiate. Le lotte non potevano più restare ferme. L’agilità della lotta era diventato uno dei criteri per vincere. Eurisko si rimise al lavoro. “Alla fine decise che se una delle nostre navi veniva danneggiata, si sarebbe affondata da sola, e in questo modo l’agilità della lotta sarebbe aumentata”, racconta Lenat. E vinse di nuovo. Eurisko era svantaggiato. Gli altri giocatori erano tutti esperti di storia e strategia militare. Sapevano in che modo Wellington aveva battuto Napoleone a Waterloo, o cosa era successo esattamente ad Antietam tra nordisti e sudisti. Erano cresciuti giocando a Dungeons and dragons. Erano addetti ai lavori. Eurisko, invece, conosceva solo il manuale. Un essere umano capisce il collegamento tra due frasi come “Johnny ha rapinato una banca” e “dovrà passare vent’anni in prigione”, ma Eurisko no, perché un computer capisce solo quello che legge, non può intuire il passaggio mancante: “Johnny è stato arrestato, processato e condannato”. Eurisko era un outsider. Ma aveva vinto proprio per questo. Il fatto di non conoscere le convenzioni del gioco si era trasformato in un vantaggio. “Eurisko ha dimostrato che qualsiasi insieme di regole è solo un’approssimazione della realtà”, spiega Lenat. “Gli altri concorrenti riempivano i vuoti lasciati dalle regole con informazioni prese dal mondo reale. Eurisko non aveva quei preconcetti perché non sapeva abbastanza del mondo”. Quindi trovava soluzioni che, come ammette anche Lenat, erano “socialmente inaccettabili”: mandava in battaglia mille navi immobili e indifese o affondava le sue stesse navi appena venivano danneggiate. Questo è il secondo aspetto della strategia degli insorti. I rivoluzionari s’impegnano più dei Golia. Ma hanno anche un altro vantaggio: sono disposti a fare cose “socialmente deplorevoli”, sfidano le regole convenzionali del combattimento. Le qualità del giocatore di pallacanestro ideale hanno a che fare con l’abilità e la coordinazione. Quando l’accento si sposta dall’abilità all’impegno, il gioco diventa irriconoscibile: i giocatori sono confusi, cominciano a sbagliare, a muoversi in modo scoordinato, anche i più bravi si lasciano prendere dal panico e sbagliano il tiro. Bisogna essere fuori da quel mondo, essere uno straniero che non conosce il gioco o una ragazzina di New York alle prime armi, per avere il coraggio di giocare in quel modo. T. E. Lawrence era la cosa più lontana che si potesse immaginare da un ufficiale britannico tradizionale. Non si era diplomato con il massimo dei voti all’accademia di Sandhurst. Di mestiere faceva l’archeologo, ed era un poeta e un sognatore. Quando andava a trovare i suoi superiori indossava i sandali e vestiva come un beduino. Parlava arabo e sapeva cavalcare un cammello come se non avesse mai fatto altro in vita sua. E Davide, non lo dimentichiamo, era un pastore. Affrontò Golia con i sassi e la fionda perché quelli erano gli strumenti del suo mestiere. Non sapeva che per combattere con un filisteo bisognava rispettare delle formalità, incrociare le spade. “Quando un leone o un orso rubano una pecora dal mio gregge, io lo inseguo, lo abbatto e gliela strappo dagli artigli”, spiega a Saul. Davide aveva trasferito le regole della pastorizia sul campo di battaglia. Il prezzo che un outsider paga per il mancato rispetto delle convenzioni, naturalmente, è la disapprovazione dell’insider. Perché negli anni venti le università della Ivy league non volevano gli immigrati ebrei? Perché loro erano l’establishment e gli ebrei erano i ribelli, si davano da fare, premevano e giocavano in base alle regole degli immigrati che, agli occhi dell’élite anglosassone dell’epoca, dovevano sicuramente apparire socialmente inaccettabili. “I loro risultati vanno ben oltre le loro capacità grazie alla loro ambizione e alla loro grande energia”, dichiarò il preside del Columbia college a proposito degli ebrei di Brooklyn, del Bronx e del Lower East Side. E non voleva fargli un complimento. Rispetto a Davide, Golia non solo è un gigante: gli si oppone con tutta la forza delle convenzioni sociali, lo disprezza. “All’inizio tutti risero della nostra lotta”, racconta Lenat. “Era veramente imbarazzante. Il pubblico ci compativa. Ma verso il terzo turno smisero di ridere, e al quarto cominciarono a lamentarsi con i giudici. Quando vincemmo di nuovo, qualcuno si arrabbiò molto, e i direttori del torneo dissero che queste strane flotte progettate da un computer non rientravano nello spirito del gioco. Minacciarono di interrompere il torneo se ci fossimo iscritti di nuovo. Decisi che la cosa migliore da fare era ritirarmi in buon ordine”.
Mai alzare la voce
Non c’è da meravigliarsi che i direttori del torneo trovassero irregolari le strategie di Eurisko. Per loro era sbagliato affondare le proprie navi. E avevano ragione. Ma non dimentichiamo che era stato Golia a stabilire le regole. E non dimentichiamo perché: quando il mondo gioca secondo le sue regole, Golia vince. Per la Redwood City, i problemi cominciarono all’inizio della stagione regolare. Gli allenatori avversari si arrabbiavano. Avevano la sensazione che la squadra non giocasse correttamente, che non fosse giusto usare il pressing a tutto campo con ragazzine di 12 anni che stavano ancora imparando i rudimenti del gioco. Lo scopo del basket, secondo loro, era imparare le tecniche. Ovviamente si poteva rispondere che giocando in quel modo una ragazzina di 12 anni imparava qualcosa di molto più importante: che con l’impegno si può battere l’abilità e che le convenzioni sono fatte per essere sfidate. Ma quando le vedevano vincere, gli allenatori avversari erano poco inclini alla filosofia. “Un tizio voleva addirittura fare a botte con me nel parcheggio”, racconta Ranadivé. “Era un gigante. Ovviamente era uno che giocava a football e a pallacanestro, e non sopportava di essere battuto da uno straniero mingherlino come me”. Craig a volte rimaneva sconcertato di fronte al comportamento degli altri allenatori: “Sgridavano le loro ragazze, le umiliavano. Urlavano agli arbitri: ‘Fallo! Fallo!’. Ma noi non commettevamo nessun fallo. Usavamo solo una difesa più aggressiva”. “Le mie ragazze erano tutte bianche e bionde”, dice Ranadivé. “Mia figlia era l’unica più scura perché è mezza indiana. Una volta ci scontrammo con una squadra di ragazze di colore di East San José. Giocavano da anni. Erano nate con la palla in mano. E noi le stavamo annientando. Eravamo già 20 a zero. Non lasciavamo neanche che rimettessero in campo la palla. L’allenatore si infuriò al punto che lanciò in aria una sedia. Cominciò a urlare, e si sa che a quell’età le ragazzine s’innervosiscono se strilli”. Ranadivé scuote la testa: mai, mai alzare la voce. “Alla fine l’arbitro lo cacciò fuori dalla palestra. Mi aveva spaventato. Non sopportava l’idea di essere sconfitto perché le sue giocatrici erano palesemente più brave delle mie ragazzine bionde”. Ai campionati nazionali le ragazze della Redwood City vinsero le prime due partite. Al terzo girone affrontarono una squadra di una cittadina sperduta dell’Orange County, che giocava in casa e aveva scelto l’arbitro. E l’arbitro non credeva nella teoria della grinta. Per lui impedire alle avversarie di toccare la palla non era un modo corretto di giocare a basket. Cominciò a fischiare un fallo dopo l’altro. “Erano falli di poco conto”, dice Craig. Il ricordo lo fa soffrire. “Le ragazze non capivano”, aggiunge Ranadivé. “L’arbitro ci aveva attribuito il quadruplo dei falli delle avversarie”. “Il pubblico protestava”, ricorda Craig. “Era una brutta situazione”. “Un rapporto di due a uno può anche capitare, ma quattro a uno?”, lo interrompe Ranadivé scuotendo la testa. “Non eravamo fuori. Potevamo ancora vincere. Ma…”. Ranadivé disse alle ragazze di smettere di fare pressing. Fu costretto a prendere questa decisione. Le giocatrici della Redwood City si ritirarono nella loro metà campo, e rimasero a guardare le avversarie che avanzavano. Smisero di correre quando non erano in possesso della palla. Giocarono a basket come si dovrebbe giocare, e persero. Ma costrinsero Golia a chiedersi se, in fin dei conti, era veramente un gigante.

MALCOM GLADWELL è un giornalista del New Yorker. In Italia ha pubblicato Il punto critico. I grandi effetti dei piccoli cambiamenti (Rizzoli 2006) e In un batter di ciglia. Il potere segreto del pensiero intuitivo (Mondadori 2006).

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