ott 112012
 

Zingales e Boldrin hanno fondamentalmente ragione quando invocano uno stop fermo ai sussidi di Stato per le imprese e la riduzione delle imposte. Perche? Se io finanzio imprese non competitive, in realtà aiuto chi sa fare bene il proprio lavoro e chi no (e sembrerebbero in gran numero!). Non solo, perchè gli aiuti li distribuisco non a chi è “sano”, ma a chi non è più competitivo e tramite il finanziamento, non sarà costretto ad innovarsi e cambiare radicalmente. Senza contare che tali aiuti arrivano direttamente da chi sta facendo bene impresa. Tirando al linea, chi sta producendo bene e accetta rischio e capacità d’innovazione sarà costretto a finanziare in maniera gratuita chi sta sbagliando, perdendo quindi risorse che potrebbero essere reinvestite in ulteriore ricerca e sviluppo di aziende che generano lavoro. Ridurre invece la tassazione non permette, detto in maniera grezza, che si verfichi questo passaggio di risorse, ma lascia alla capacità delle aziende lo sviluppo e la produzione di beni che i consumatori vogliono consumare. Resta in ogni modo il rebus dei lavoratori. Ma anche qui bisogna grattare la superficie. Se un’azienda non funziona, non si può sperare di sovvenzionarla in perdita per tutta la vita: le risorse impiegate provocano un impoverimento della collettività che poi si tradurrà, come sta accadendo oggi, nel taglio dei servizi. Senza contare che in realtà sono i lavoratori stessi che si pagano gran parte della loro stessa disoccupazione (cassa integrazione). Una minore imposizione fiscale potrebbe, sempre ragionando in maniera grezza, portare a un’accelerazione della crescita e forse, anche nel breve termine, a un risparmio di risorse (tenendo anche conto che chi produce e vende di più, guadagna di più e versa più contributi totali). L’ultimo vero pezzo di riforma starebbe, infine, nel tutelare non il posto di lavoro, ma il lavoratore stesso, con debite correzioni che ne stimolino comunque la rioccupazione anche mediante la riqualificazione. Un esempio è il calcolo che qualcuno ha fatto per i lavoratori del Sulcis: allo Stato sarebbe costato meno sostenere i singoli lavoratori che continuare a foraggiare aziende che poi non hanno assistito veramente i lavoratori e stanno per chiudere. Il concetto finale è che anche ragionamenti di questo tipo possono avere delle falle, ma il perpetuarsi dei vecchi modelli non ci porta da nessuna parte ed è necessario trovare, con juicio, altre strade liberandosi da ideologismi che non appartengono nemmeno più ai lavoratori.

  2 Responses to “Imposte, sussidi, aziende: change!”

  1. È allora così difficile immaginare come sia cambiata complessivamente, in conseguenza di tutto ciò, la vita dei lavoratori? Il tempo di lavoro s’è dilatato a dismisura. Quel poco che resta della giornata è una corsa affannosa per svolgere le faccende domestiche, accudire i famigliari, con tanti saluti allo spazio per un vero riposo, la cura degli affetti, un sano divertimento, l’impegno in attività sociali, la crescita intellettuale (e tutto ciò senza contare che il lavoro è diventato più intenso, spossante, anche se muscolarmente talvolta meno faticoso).

  2. Per innescare il cambiamento è necessario innanzitutto incentivare la responsabilità e la partecipazione, sia dei fornitori sia dei fruitori del welfare. Occorre valorizzare il merito e le competenze anziché le “rendite di posizione”, puntando sulla sussidiarietà e mettendo a fattor comune l’impegno di lavoratori, imprese, Stato e reti informali (famiglia, terzo settore ecc.) per utilizzare le risorse disponibili in modo più equo e senza sprechi.

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