dic 122008
 

Per riscoprire alcune nostre radici in questa giornata di sciopero generale, può essere interessante rileggere questo testo di Fernando Santi, segretario della Camera del Lavoro di Parma nel 1920 e di quella di Torino dal 1921 al 1925, e che dopo la Liberazione, nel 1947 e fino al 1965, è Segretario Generale della CGIL. Fu deputato per varie legislature nelle fila del PSI.

Il sindacato oggi non si occupa di solo pane. Il benessere che vogliamo conquistare per i lavoratori non è fine a se stesso. È una delle condizioni per una dignità umana e sociale senza la quale l’uomo – che per noi è il fine di tutte le cose – si sente lo stesso umiliato ed offeso, estraneo al consorzio civile, nemico agli altri ed a se stesso. Il sindacato è strumento naturale di democrazia. Ecco perché chiederci se siamo nel sistema o fuori dal sistema è porre un falso dilemma. Per la somma degli interessi particolari e generali che rappresenta, per i fini che si propone di giustizia sociale e di difesa della personalità umana, per il suo operare nell’ambito della legalità istituzionale, il sindacato è un’autentica forza democratica, garanzia di libertà.

Condizione perché l’iniziativa e l’azione del sindacato possano manifestarsi ad ogni livello e in ogni luogo – incominciando da quello di lavoro – è la sua autonomia da ogni e qualsiasi forza esterna: padronato, partiti, governi. Riconosciamo che questa autonomia può essere quotidianamente insidiata e che pertanto va salvaguardata ogni giorno. L’esigenza della autonomia effettiva del sindacato, così come la sua unità, nasce dalla necessità del sindacato di non delegare ad altri quelli che sono i suoi compiti naturali. Di non soggiacere alla pressione padronale, alle esigenze politiche di questo o quel partito, di questo o quel governo. L’autonomia del sindacato trova concreta espressione nella sua politica che deve partire dalla realtà obiettiva dei rapporti di lavoro, delle esigenze dei lavoratori e della collettività popolare nazionale […]

L’unità si conquista e si mantiene con una linea sindacale che porti avanti le giuste rivendicazioni dei lavoratori, volute dalla maggioranza dei lavoratori, a quel momento dato, in quelle obbiettive condizioni così come la realtà le promuove e le rende possibili, come dimensione da conquistarsi con un intelligente uso delle nostre forze e dei nostri metodi di lotta che siano accettabili dai lavoratori. Io credo al valore dell’esempio alla funzione delle avanguardie, sale della terra, che gettano luce su domani ancora oscuri per molti. Ma teniamo presente che il compito delle avanguardie, anche se talvolta può essere di sola testimonianza, non è come criterio generale, quello di farsi isolare. Ma è quello di aprire la strada al grosso dell’esercito col quale esse devono essere costantemente collegate. Una delle caratteristiche sostanziali del sindacato è infatti quella di essere un’organizzazione di massa. È fatto di uomini, di uomini come noi, esattamente, con opinioni politiche diverse o senza opinione, l’animo aperto a suggestioni mutevoli, con timori e speranze. Uomini che talvolta marciano a passo diseguale ma che comunque vogliono andare avanti, che ogni giorno acquistano coscienza della loro condizione e della necessità di mutarla.

Ecco perché io penso che vi è una legge invisibile che presiede – lo vogliamo o no – all’azione del sindacato: la legge della gradualità. Il sindacato non può dare appuntamenti alla storia. I partiti lo possono fare, ed entro determinati limiti anch’essi. Il sindacato deve ogni giorno rendere conto del suo operato. Ogni giorno direi deve conquistare qualche cosa, ecco perché dobbiamo rifuggire da sterili impazienze come da abbandoni colpevoli. Io credo nella sicura conquista di ogni giorno, credo nella necessità di trasferire nel costume, negli ordinamenti, nelle leggi, le conquiste operaie perché siano salvaguardate e diventino patrimonio civile di tutta la società nazionale. Non possiamo rinunciare per un malinteso senso di autonomia, a chiedere allo Stato quello che uno Stato democratico ha il dovere di fare nei confronti dei lavoratori. I padroni non chiedono forse come noi, più di noi, e non ottengono forse più di noi?

Perciò dobbiamo batterci per conquistare nei fatti e nelle leggi i diritti sindacali e democratici che discendono dai principi generali di libertà che la Costituzione sancisce. Quella Costituzione che afferma nel suo articolo fondamentale che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Cosa stupendamente bella in teoria che vuol dire, in teoria, che il lavoro – e i lavoratori dunque – sono la base delle nostre strutture economiche sociali e giuridiche, che gli interessi dei lavoratori sono prevalenti nei confronti di quelli delle forze sociali con le quali il lavoro si trova in una naturale posizione di antagonismo. Ciò vuol dire che chi attenta al lavo ro, ai suoi diritti, ai suoi interessi, alla dignità dei lavoratori, attenta alle basi stesse del nostro ordinamento democratico. Cose stupendamente belle, dicevo, che la realtà regolarmente smentisce perché manca la volontà politica di realizzare la Costituzione in modo conseguente. Questa volontà esplicita o meno è nei l a voratori, nel sindacato. Lottando per gli interessi dei lavoratori noi lottiamo dunque per aprire serie prospettive di rinnovamento e di progresso democratico del paese.

La nostra lotta rivendicativa ha il suo punto di fuoco nella fabbrica dove passa la linea della battaglia immediata per la ripartizione del reddito. Giusto. Ma dobbiamo riconoscere che l’azione salariale da sola non è in grado di rompere o valicare le strutture esistenti, che reagiscono e si irrigidiscono chiamando in loro soccorso tutte le forze politiche e sociali conservatrici. Noi dobbiamo lottare anche per riformare queste strutture, aprire nel muro d’argento del sistema il varco attraverso il quale passare con la somma delle nostre rivendicazioni quantitative e qualitative. E per questo fine non possiamo rinunciare, pur nella nostra autonomia, al concorso di tutte le forze socialmente avanzate ovunque esse si trovino collocate, all’opposizione ed al governo.

Riforme, riformismo, riformisti, compagni. Certo, nel senso che spero traspaia da questo mio intervento, io sono un riformista. Vale a dire credo nella trasformazione graduale democratica della società attuale in una società più libera e più giusta. Credo nei valori permanenti di democrazia e di libertà che devono accompagnare l’ascesa delle classi lavoratrici a garanzia appunto dell’auspicata nuova società. Cerco di richiamarmi all’insegnamento di quegli uomini del riformismo emiliano e italiano nella galleria dei quali si è voluto ieri – come atto di stima e di affetto – collocare il mio vivente ritratto. Uomini umani, civili, onesti di fede ma – badate bene – uomini tutt’altro che accondiscendenti, duri nelle lotte, intransigenti nei principi. Nobile razza che ormai pare estinta senza lasciare eredi. E credo nella autonomia del sindacato in qualsiasi tipo di società civile, anche nella società socialista, per il suo compito, ovunque necessario, di sollecitazione, di verifica, di rappresentanza permanente degli interessi specifici dei lavoratori […]

È necessario anche accentuare gli sforzi per l’unità sul piano europeo, rimuovendo tutti gli ostacoli veri e supposti, di comodo cioè, in funzione di alibi, che possono annullare questi sforzi. Se c’è un movimento nel mondo per sua natura internazionalista, è quello sindacale. Noi riaffermiamo con finezza questo spirito internazionalista che ci rende compagni ai lavoratori di tutto il mondo, senza distinzioni di ideologia, di regimi sociali, di nazionalità razza e colore. Operare sul piano europeo, non sorprendetevi se mi dichiaro europeista, fautore di un’Europa democratica senza preclusioni suicide. L’Europa diviene sempre più una realtà anche se questo processo in campo economico è ora compromesso e dominato dai monopoli. Sono europeista perché la lotta della classe dei lavoratori varca le frontiere e sale a livello europeo […]

Siamo forse stati irresponsabili nel passato? Non lo credo. Comunque io non mi spavento di questa parola. Se essa, come credo, vuol dire quello che noi intendiamo: autonoma capacità di decisione, autonoma capacità di scelte da operare nell’interesse dei lavoratori, nel quadro degli interessi non dei gruppi privati ma di quello della collettività popolare e nazionale. In realtà molte cose si possono chiedere al sindacato. Soltanto una non può essere chiesta: che rinunci ad essere se stesso, che rinunci alla sua responsabile ma autonoma amministrazione della forza lavoro, che deleghi ad altri, partiti o governi, la propria naturale funzione senza la quale il sindacato decade e scompare [...]

Molti miti sono stati infranti, vecchie prospettive sono cadute, esperienze nuove sono in corso, guardate con fiducia da taluni, contestaste con convinzione da altri. A mio avviso è necessario un profondo ripensamento delle esperienze variamente consumate per creare nuove prospettive, reali e non illusorie, per tutto il movimento operaio in senso lato. So che questo non è compito del sindacato. Se ne parlo qui è solo perché in questo necessario ripensamento – o revisione se non abbiamo paura delle parole e io non ho paura – se ne parlo qui dicevo, è perché l’esperienza del sindacato, l’azione del sindacato, può essere non un modello ma un punto di riferimento istruttivo per determinate nuove condizioni e nuove prospettive che ridiano slancio alle masse popolari italiane per un serio rinnovamento della nostra società, un rinnovamento sulla via della democrazia, della libertà, del progresso sociale. Ho detto che è un discorso che non va fatto qui. Va fatto a livello politico, va fatto fuori di qui. È il grande discorso della sinistra italiana, nella sua complessa realtà; ma è un discorso che va fatto. Il tempo che ancora si può perdere è poco. Sappiatelo, sappiamolo, lo sappiano.

Da Confederazione Generale Italiana del Lavoro, VI Congresso Nazionale 31 marzo-5 aprile 1965, Roma, Edizioni CGIL, 1965

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